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  • Writer's pictureAlessandro Rinaldi

episodio 6 - nigerian girl






👇👇 Leggi la trascrizione dell'episodio👇👇


Nigeria. Stato del Delta. Lungo il corso del fiume Benin sorge la cittadina portuale di Sapele. Circondata da foreste è dagli inizi del diciannovesimo secolo uno dei principali centri di produzione di legname del Paese. È qui che ha inizio la storia di Ifemelu. A differenza delle altre storie però, questa si svolgerà per la maggior parte al di qua del mare, nel nostro Paese, in Italia.

Ifemelu vive in una delle molte case di lamiere del quartiere, con la madre e i fratelli minori. Al termine della Junior Secondary School, che corrisponde più o meno alla nostra scuola media, ha 15 anni e la mamma, con la quale non va affatto d’accordo, le dice che è ora che impari un mestiere e che cominci a guadagnare qualche soldo. Forse per la prima volta le due donne la pensano alla stessa maniera.

«Lei diceva di non avere più soldi per me, che eravamo quattro figli, e che siccome quel disgraziato di nostro padre se n’era andato, da sola non ce la faceva. Io le ho detto che per me andava bene. Dove vivevamo noi non c’erano tante opportunità per imparare una professione così mi ha spedita da mio zio che viveva a Benin City»

A nord di Sapele, Benin city, che è la capitale dello stato di Edo, è un nodo nevralgico dell’industria della gomma, dell’olio di palma e il principale hub di partenza per la tratta al fine di sfruttamento sessuale, anche verso l’Italia.

Qui Ifemelu comincia a ad imparare a fare la sarta. In città vive anche il padre della giovane, ma da quando lui ha abbandonato la famiglia non si sono praticamente più sentiti. Fino a quando il fratello, al telefono, non le dice:

«Senti Ife, papà vive lì, perché non vai a trovarlo almeno una volta, è sempre nostro padre»

«Perché non ci vai tu a trovarlo allora» risponde seccata, e chiude la telefonata.

Nonostante la perentorietà della risposta, quel breve dialogo le dà da pensare. Da quando il padre li aveva lasciati, sua madre non aveva fatto altro che parlarne male, che frequentava altre donne e che era un poco di buono. Forse le cose non stavano esattamente in quel modo, pensa. Così una domenica esce di casa per fare un giro e decide di andare a trovare il genitore. Resta da lui per alcuni giorni senza avvertire nessuno.

«A quel punto mio zio materno mi ha chiamata e mi ha detto che visto che volevo rimanere con il mio inutile padre sarei dovuta andare a prendere le mie cose e trasferirmi da lui per sempre. E così ho fatto.»

Il padre, Anthony, fa il muratore e conquista Ifemelu dicendole che non c’è fretta che trovi un lavoro, che può stare con lui un po’ e pensare bene a cosa voglia fare da grande. In quel periodo l’uomo frequenta una donna di nome Evelyn con la quale Ifemelu si trova spesso a trascorrere del tempo. Al rientro a casa, una sera, Anthony si siede vicino alla figlia e le racconta che Evelyn ha una sorella in Europa paventandole la possibilità di trasferirsi nel vecchio continente, per vivere una vita migliore, guadagnare più soldi ed avere un futuro come quello che si vede in televisione. Al momento del suo arrivo, la sorella di Evelyn le avrebbe trovato subito lavoro come babysitter, professione che svolgeva anch’essa. Ifemelu è titubante, non le va troppo di viaggiare, ma il padre appare convinto di quello che dice ed Evelyn le è sembrata una signora affidabile.

«All’inizio ero scettica, forse era meglio che riprendessi a fare la sarta. Ma hanno insistito così tanto che alla fine ho accettato. Non l’ho detto nemmeno a mia madre, se non verso la fine di questa storia»

Il viaggio dalla Nigeria verso la Libia è soltanto un po’ meno scomodo e un po’ più breve di quelli raccontati nei precedenti episodi del podcast.

«Siamo partiti dalla Nigeria e siamo arrivati in Libia. Dopo qualche giorno mi hanno consegnato ad un uomo ghanese che mi ha violentata. Poi mi ha fatto traversare»

Arrivata sulle coste siciliane, Ifemelu viene foto-segnalata dalle autorità italiane (le chiedono i dati anagrafici, le prendono le impronte digitali e la identificano attraverso delle foto segnaletiche) e viene trasferita in un centro di accoglienza dell’isola. Qualche giorno più tardi, mentre passeggia, si imbatte in una signora che le rivolge la parola.

«Ho incontrato una donna nigeriana, a ripensarci oggi forse era lì ad aspettarmi, ma non ne sono sicura»

L’interlocutrice si avvicina alla ragazza dicendole di abitare nei dintorni e che l’aveva notata da alcuni giorni. Le due scoprono di essere entrambe nigeriane e Gift, questo il nome della signora, le offre il telefono e le dice che può tenerlo fino al giorno dopo, le consiglia di chiamare i parenti, perché bisognava avvertirli dell’esito del viaggio, che non si preoccupassero.

«Mi ha chiesto se avessi famigliari e le ho detto di sì. Mi ha dato il suo telefono per chiamare mio padre. L’ho fatto e gli ho chiesto di non dare a nessuno quel numero. Ma lui lo ha dato a Evelyn e alle persone che hanno organizzato il viaggio evidentemente»

Da quel momento, il telefono che le ha prestato Gift comincia a squillare incessantemente e, ogni volta che Ifemelu risponde, una voce maschile che dice di appartenere ad un certo Ofure le dà istruzioni su come raggiungerlo a Roma e le consiglia di non dimenticarsi mai del giuramento juju. «A quel punto io morivo dalla paura, e quando l’ho detto a mio padre anche lui ha detto di averne, ma non so se all’epoca sapesse quello che ero venuta veramente a fare in Italia»

Quando si parla di juju in genere si fa riferimento a un sistema di credenze magiche che pesca a piene mani dalle religioni animiste dell’africa occidentale. Ancora oggi in molte di queste regioni tali credenze hanno una forte presa sulla popolazione al punto tale che il ricorso ad un rituale di magia nera juju è uno dei meccanismi coercitivi più forti che vincola le vittime all’obbedienza più di molti altri strumenti materiali. Di solito, come è accaduto a Ifemelu, l’incubo ha inizio con una promessa di lavoro come babysitter o parrucchiera in Europa e la conseguente possibilità di avere accesso ad una vita migliore. Prima di partire, se le vittime accettano, devono però prestare un giuramento di fronte ad un sacerdote juju. La somma che giurano di restituire, di solito tra i 30 e i 40 mila euro, rappresenta per le ragazze, data la distanza geografica e culturale tra esse e il luogo che raggiungeranno, un valore totalmente astratto, privo di un qualsiasi collegamento con la realtà. Non hanno idea per quanti soldi si stiano indebitando. Il rituale, del quale esistono numerose varianti, consiste nella creazione di un pegno magico, un sacchetto custodito dal cerimoniante, contenente unghie, peli pubici, capelli, lembi di indumenti intimi e sangue della donna mescolati con erbe e altri ingredienti magici. La vittima viene terrorizzata ed edotta che, in caso di inadempienza al patto, in caso di fuga o di rifiuto, le conseguenze ineluttabili saranno la malattia e la morte per sé e per i propri cari.

Se tutto va bene, a prestazioni pagate 10 o 20 euro, occorrono tra i 5 e i 7 anni per ripagare il debito, senza contare le spese di vitto e alloggio.

Nel 2018 la massima autorità religiosa del popolo Edo, L’Oba Ewuare II ha lanciato un editto contro i giuramenti juju, ordinando agli stregoni di distruggere i sacchetti con gli oggetti rituali. Il video di tale cerimonia di scomunica è diventato virale su tutti i telefonini della comunità nigeriana in patria e non, liberando immediatamente, in teoria, le ragazze dalla schiavitù. Purtroppo il gesto, per quanto significativo e sicuramente foriero di alcuni risultati, da solo non è bastato né basterà a fermare il fenomeno della tratta dalla Nigeria. I trafficanti e le maman hanno trovato nuovi metodi di coercizione violenta e, al di fuori dello stato di Edo, l’editto, che ha valore spirituale ma non legale, sembra non essere stato recepito.

«Ofure continuava a minacciare me e Gift, o così mi facevano credere, al punto da costringerla a comprarmi un telefono, dato che il mio l’avevo perso durante il viaggio. Voleva che raggiungessi una persona, qualcuno che abitava in Sicilia e che mi avrebbe portato da lui»

La pressione subita dalla giovane è tale che dopo un paio di giorni Ifemelu decide di fuggire dal centro di accoglienza senza avvertire Gift. Riesce a contattare una ragazza che aveva lasciato il centro prima di lei e si fa ospitare. Le racconta la vicenda in cui è finita e l’amica le esprime la propria preoccupazione. Gettare il telefono non avrebbe risolto nulla le dice, il legame juju avrebbe funzionato ovunque lei fosse fuggita, che rispondesse al telefono o meno.

L’amica le suggerisce di tornare dall’uomo e pagargli la cifra dovuta in cambio della liberazione dal patto magico. Magari ce l’avrebbe fatta. Ifemelu chiama Ofure e si fa dare indicazioni per raggiungerlo. Si guarda in tasca e conta i pochi soldi rimasti dei pocket money ricevuti al centro di accoglienza. Grazie all’amica riesce a rimediarne un altro po’, sufficienti in totale per acquistare il biglietto per Reggio Calabria e da lì per Roma.

Ofure la aspetta fuori dalla stazione, assieme ad una donna che dice di essere la sorella. Senza molte spiegazioni, Ifemelu finisce a vivere con lei per quasi un mese, durante il quale non le viene chiesto di fare niente, fino al giorno in cui riappare l’uomo con una busta di plastica piena di abiti.

«Erano gonne e magliette molto appariscenti, me le ha date tutte e mi ha detto che era arrivato il momento di cominciare a lavorare. Gli ho chiesto che lavoro dovessi fare, perché io ero arrivata sin lì per fare la babysitter. Lui mi ha detto che dovevo prostituirmi»

Ifemelu sgrana gli occhi e sostiene lo sguardo di Ofure, non è venuta fin lì per quello, niente da fare. Ofure per tutta risposta le molla uno schiaffo violentissimo che la fa cadere a terra. Ora Ifemelu piange, stordita.

«Mi ha portata nel posto dove avrei dovuto lavorare. Mi chiamava sempre al telefono per controllarmi. Ma visto che mi arrabbio facilmente, ogni volta gli rispondevo male e mi rifiutavo di farlo» Nonostante le botte, le privazioni e le violenze sessuali a cui il criminale la sottopone, Ifemelu è cocciuta e continua a ribellarsi.

«Un giorno Ofure mi ha picchiata più forte perché non avevo portato i soldi e perché quando mi aveva chiamato al telefono io per dispetto l’avevo messo in attesa per tutta la notte»

Visto che a Roma la ragazza non fa soldi, Ofure le dice che l’avrebbe portata in un altro posto. Ifemelu ha paura di essere ceduta a qualcun altro, forse molto peggio di Ofure stesso, così decide di fuggire. Ma la città è dura se non si ha un soldo né un posto dove andare, è inverno e fa freddo.

«Per qualche giorno sono andata a stare con altre che avevo conosciuto sulla strada. Sono stata con loro una settimana ma lui continuava a chiamarmi e dire che se fossi tornata non mi avrebbe fatto niente. Così siccome lì non potevo restare a lungo e un posto non ce l’avevo gli ho creduto»

L’altro posto di cui parlava Ofure è Napoli, dove la giovane viene data in consegna a un’altra maman. Anche qui Ifemelu guadagna poco e per la sua “scarsa professionalità” subisce nuove angherie e nuove violenze.

«Sono stata lì tre mesi e i pochi soldi che facevo se ne andavano per pagare l’affitto e le bollette alla donna. Poi ho conosciuto un ragazzo e siamo fuggiti a Milano».

Ma i problemi per lei non sono finiti. Ofure, puntuale come una sveglia, le ricorda che sulla sua testa e quella dei suoi cari pende la maledizione, inoltre scopre che Destiny, il fidanzato, ha già una moglie e una figlia in Italia. Così lei prende e se ne va di casa.

«Destiny mi aveva mentito e Ofure mi mandava le maledizioni juju al telefono che io però gli rimandavo indietro. Ma in realtà avevo paura. Sono andata a stare da un’amica, dividevamo le spese ma io conoscevo solo quel modo per guadagnare dei soldi»

Tramite la coinquilina, qualche tempo dopo, Ifemelu incontra una terza ragazza, Faith, che, ascoltata la sua storia, le consiglia di tornare in un centro di accoglienza dove sarebbe stata più al sicuro.

«Ma quale centro sarebbe stato disposto a riprendermi dopo tutte le fughe e i casini che avevo fatto. Lei mi ha dato dei numeri di telefono. Io ho chiamato ma mi consumavano il credito per chiedermi cose o darmi informazioni che non mi sembravano importanti. Mi stufavo e chiudevo la chiamata»

Ifemelu non ha pazienza ed è scostante e scontrosa con tutti, per fortuna l’amica la mette in contatto diretto con l’operatrice di un centro che ospita vittime di tratta come lei che la invita a fare subito i bagagli e partire per raggiungere la struttura. Lei ci pensa su qualche secondo e decide di fidarsi. Finisce che al centro si trova bene, le danno una camera insieme ad un’altra ragazza, le insegnano l’italiano e inizia un tirocinio. Nei giorni seguenti Ofure si rifà vivo, la minaccia e le dice che avrebbe chiamato delle persone molto potenti in Nigeria che l’avrebbero maledetta ancora di più.

«Ofure continuava a chiamarmi per dire che dovevo restituire i soldi. Io gli dicevo di scordarselo che non lavoravo più in quel modo. Quando avrei trovato un buon lavoro gli avrei mandato il denaro»

Anche il padre la chiama, è spaventato perché teme che per colpa del comportamento della figlia la maledizione si abbatterà su di lui. La implora di tornare da Ofure ed è a questo punto che lei, stufa, decide di chiude la telefonata e, finalmente, cambiare scheda telefonica.

«Da allora per un po’ non ho comunicato più con nessuno di loro, solo con mia madre. Ofure però ha raggiunto anche il suo telefono, sarà stato mio padre a dargli il contatto, così quando l’ho saputo l’ho richiamato con il numero nascosto e stavolta l’ho minacciato io. Gli ho detto che se si azzardava ancora a chiamare mia madre lo avrei denunciato alla polizia».

L’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, rivela che nel 2016, anno in cui la storia di Ifemelu ha più o meno inizio, l’80% delle donne nigeriane che è approdato sulle coste italiane è stata potenziale vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Il 60% di loro veniva dallo stato di Edo.

Sbarcate sulle coste della Sicilia, le vittime vengono subito reclutate dalle gang nigeriane prima che possano raggiungere gli hotspot. Oppure, se ciò non è possibile, vengono recuperate una volta assegnate ad un centro di accoglienza. In seguito vengono portate nelle così dette connection house, appartamenti dove sono segregate e costantemente controllate dalla maman. Solo a questo punto viene spesso loro rivelata la vera natura del lavoro che andranno a svolgere.

La storia di Ifemelu, per fortuna a lieto fine, ricalca le traiettorie di migliaia di vittime che spesso non ce l’hanno fatta.


Hai ascoltato il sesto episodio di Prima di vedere il mare, un podcast scritto, prodotto e condotto da me, Alessandro Rinaldi. Se ti va di approfondire l’argomento della puntata ti consiglio il libro di Laura Maragnai e Isoke Aikpitanyi, Le ragazze di Benin City.

Se questo episodio ti è piaciuto puoi lasciare un mi piace su facebook o su instagram e soprattutto puoi condividerlo con i tuoi amici. Ti ricordo poi che, da quest’anno, esiste anche il sito di “Prima di vedere il mare”, sul quale troverai i link di approfondimento e le trascrizioni integrali di tutti gli episodi, anche di quelli della prima stagione.

Restiamo in contatto, a presto!


Link consigliati per approfondire:


Libro consigliato:



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