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  • Writer's pictureAlessandro Rinaldi

episodio 4 - noi due per sempre


👇👇 Leggi la trascrizione dell'episodio👇👇


Aminah ha 23 anni e vive con la numerosa famiglia a Gujranwala, una città che, con i suoi due milioni di abitanti, è una delle più popolose del Pakistan. I genitori le hanno permesso di studiare, fino al decimo grado racconta, e di diventare una maestra. Così ora lavora in una scuola elementare in cui insegna Urdu. Il padre fa il guardiano in una fabbrica e la mamma fa la casalinga.

Yasmin, invece ha 28 anni, non è mai andata a scuola ed è sposata con un uomo che fa il camionista. Ha un bambino di 5 anni, e non lavora.

Quando il marito di Yasmin muore improvvisamente in un incidente stradale, lei si trasferisce a casa degli zii, i genitori di Aminah. Il figlio invece viene portato a vivere dai suoi.

«Secondo le nostre usanze essendo vedova non poteva più tornare in famiglia e i miei genitori si sono offerti di ospitarla per un po’, per non lasciarla da sola» racconta Aminah.

Passano alcuni mesi e Yasmin sente che è il momento di recuperare la propria indipendenza. Aminah decide che sarebbe andata a stare da lei di tanto in tanto, sente che la cugina ha ancora bisogno di qualcuno vicino. Il tempo passa e le visite di Aminah si fanno sempre più frequenti e i periodi di permanenza sempre più lunghi.

Quando Aminah decide di trasferirsi definitivamente a casa di Yasmin, i genitori cominciano a insospettirsi.

«Mi sono trasferita da lei perché ho capito che non riuscivo a stare più di due giorni senza vederla» dice la ragazza.

La casa di Yasmin è sempre a Gujranwala, ma è molto distante sia da quella degli zii, che dalla scuola, così Aminah decide di lasciare l’insegnamento, un altro lavoro lo avrebbe trovato, l’importante era stare insieme.

Dopo pochi giorni ha già una nuova occupazione. Ora fa la rappresentante per una ditta che vende computer ed altri apparecchi elettronici. Ogni mattina esce di casa e cammina per molti chilometri, nel frastuono stonato del traffico, sotto la cappa di smog che avvolge perennemente la città.

Secondo IQAir, che elabora uno degli indici di inquinamento da Pm2,5 più attendibili, Gujranwala è da anni tra le città più inquinate al mondo ed ha scalato la classifica fino al terzo posto per quantitativo di polveri sottili nell’aria nel 2019.

Yasmin invece ha cominciato da un po’ fare la donna delle pulizie ma la sua paga è troppo bassa e la somma dei loro stipendi non è sufficiente a garantire un minimo di sicurezza economica. Così Aminah parla con i propri datori di lavoro e le due cominciano a lavorare assieme.

«Mia cugina mi ha chiesto aiuto per trovare un lavoro così l’ho portata con me, in due guadagnavamo circa 13 mila rupie. Anche se lei è analfabeta non era un problema perché quando c’era da scrivere l’ordine o lavorare con i numeri ci pensavo io».

Ogni giorno che passa, le due ragazze sono più inseparabili e non riescono, né vogliono, a nascondere l’amore nato tra loro.

«Dai nostri atteggiamenti tutti hanno capito. I vicini ci indicavano come quelle strane e dicevano che mi sarei dovuta sposare» afferma Aminah.

Naturalmente non sono soltanto i vicini ad importunarle. I buoni rapporti di parentela tra i rispettivi genitori cominciano a deteriorarsi molto rapidamente. Ognuno dà la colpa alla famiglia dell’altra per ciò che di intollerabile sta accadendo.

«I miei genitori mi picchiavano ogni volta che venivano a riprendermi a casa di Yasmin. Volevano che sposassi un uomo e così hanno cominciato a cercarmi marito. E litigavano con quelli di mia cugina perché pensavano che fosse lei a costringermi a essere così, ma non era vero, ero io che volevo stare con lei e non volevo sposare nessun altro. Perché ci amavamo, volevamo stare insieme, spesso ci vestivamo anche allo stesso modo»

Anche i genitori e i fratelli di Yasmin non sono da meno e le impediscono di vedere il figlio.

«I miei genitori mi ammazzavano di bastonate sempre più spesso. Ma non mi importava, non ero mai stata innamorata di nessun’altra persona prima di lei.» dice Yasmin.

Nonostante la propria risolutezza, la famiglia di Aminah trova finalmente qualcuno disposto a combinare il matrimonio di loro figlio con la ragazza. In preda alla disperazione, lei decide di uccidersi, riesce a procurarsi della benzina e chiama Yasmin per salutarla un’ultima volta.

«Le ho detto che non volevo più vivere se dovevo stare senza lei e che non c’era più niente da fare quindi mi sarei uccisa e ho chiuso la telefonata, ma non ho bevuto subito».

Yasmin cerca di persuadere Aminah a non farlo ma sente che l’altra ha già interrotto la comunicazione, è spaventatissima, andare a casa degli zii può essere molto pericoloso ma se non lo avesse fatto forse Aminah si sarebbe davvero uccisa. Così prende coraggio, esce di casa, sale su un Tuk Tuk e raggiunge la casa della cugina.

Quando bussa alla porta, gli zii non vogliono farla entrare, lei grida che Aminah vuole togliersi la vita e riesce a convincerli.

«Avevo bevuto un po’ di benzina, non tanta, non sapevo quanta ne servisse per fare quello che volevo. Mi faceva male la pancia. Quando mio padre è entrato in camera, c’era anche Yasmin e mi hanno preso sotto le braccia e siamo andati all’ospedale. Io volevo morire, ma lei non mi ha lasciato andare, è venuta a salvarmi”.

All’ospedale i genitori di Aminah cominciano ad inveire contro Yasmin, incolpandola del gesto sconsiderato compiuto dalla figlia. Il padre prende il telefono e chiama i genitori della nipote dicendogli di venire subito a prenderla e portarla via per sempre.

Nel codice penale del paese alla sezione 377, sebbene non sia esplicitamente menzionata l’omosessualità, si dice che “i rapporti sessuali volontari contro l’ordine di natura con ogni uomo, donna o animale” sono punibili con l’incarcerazione da due anni a quella a vita a cui può aggiungersi il pagamento di una multa.

La sezione 377 è comune ancora a moltissimi paesi e deriva dal Codice Penale Coloniale Britannico ottocentesco. Sebbene le ex colonie britanniche oggi abbiano guadagnato l’indipendenza, la sezione 377 è ancora presente, con declinazioni differenti, nei codici del Bangadesh, Myanmar, Singapore, Sri Lanka, Giamaica e, appunto, del Pakistan.

Se essere omosessuali in Pakistan è già di per sé abbastanza difficile, lo è ancora di più se si è anche donna.

Questo perché essere lesbica, in Pakistan, significa essere invisibile. Secondo la Neegar Society, una organizzazione non governativa che promuove i diritti delle minoranze sessuali e religiose nel paese, “a causa della situazione generale delle donne in Pakistan, le lesbiche hanno raramente accesso ad una buona istruzione, alla consapevolezza circa i diritti umani o anche circa la propria sessualità. Una ragazza lesbica sarà forzata a sposarsi con un uomo e subirà la pressione della propria famiglia e della famiglia del marito”.

La realtà passa sotto traccia al punto che OutRight Action International ha definito il lesbismo un territorio in larga parte inesplorato, anche dalla legge pakistana.

Quando Aminah esce dall’ospedale, le due hanno già deciso.

Prima del tentativo di suicidio, avevano conosciuto un uomo in una ditta di trasporti, mentre lavoravano. Questi gli aveva raccontato che aiutava le persone che volevano lasciare il paese a raggiungere la Turchia, così Aminah lo contatta al telefono e trova un accordo.

«Gli abbiamo dato i nostri stipendi e lui avrebbe pensato a tutto».

Così, qualche giorno dopo, immerse nella luce arancione dell’alba, salgono su un pulmino assieme ad un’altra decina di persone e lasciano la città di Gujranwala. La loro prima destinazione sarebbe stata la stazione dei treni di Lahore, il capoluogo della regione, a un’ottantina di chilometri di distanza.

È pomeriggio quando prendono il treno per Quetta. Il viaggio è lungo e dopo circa due giorni, all’arrivo, vengono subito fatte salire su un camion che le trasporta, per alcune notti, attraverso luoghi che le due ragazze non possono riconoscere, mentre di giorno si ferma e i passeggeri vengono nascosti.

Una mattina l’autista li fa scendere, dice che che il suo lavoro finisce lì e che avrebbero dovuto continuare a piedi, al calare della sera, per valicare le montagne che si ergono aspre di fronte a loro.

«Passata la montagna abbiamo capito che eravamo arrivate in Iran, perché così dicevano le altre persone ma dove fossimo di preciso non lo sapevamo. C’era un altro camion ad attenderci».

Al successivo punto di sosta, un vecchio magazzino dismesso, i trafficanti dividono le donne dagli uomini. Quello stesso giorno, mentre le due ragazze sono vicine, in un angolo appartato, degli uomini le circondano, si avventano su Aminah e le strappano i vestiti di dosso. Yasmin urla agli assalitori di lasciarla stare, cerca di frapporsi, ma sono di più e sono più forti. Lei non si arrende, corre ad una finestra rotta a poca distanza e raccoglie un frammento di vetro che agita verso i volti degli uomini. Ma non serve a niente, loro gettano Aminah a terra, la circondano, le strappano la scheggia di vetro dalle mani sanguinanti e la schiaffeggiano.

«Così poi ci hanno violentato. Piangevamo eravamo disperate. È una cosa che ricordo con molto dolore e che non mi piace raccontare» dice Aminah.

Qualche ora dopo aver pagato con la violenza subita il loro biglietto, ripartono a bordo del camion e raggiungono Maku. Maku è una cittadina dell’Iran nord occidentale, incastrata in una stretta gola tra le montagne, al confine con la Turchia. Qui, di nuovo, devono lasciare il mezzo e attraversare la zona montuosa a piedi fino a quando raggiungono un vecchio stabile usato come nascondiglio dai trafficanti.

«C’erano già molte altre persone in attesa, c’erano anche alcune famiglie con i bambini. Ci hanno chiesto altri soldi, che non avevamo, e ci hanno spinto a chiamare a casa per farceli mandare ma ovviamente non potevamo. Quelli allora hanno detto che avrebbero trovato una soluzione alternativa e ci hanno violentato diverse volte. Qualche volta erano in due qualche volta erano in quattro. Ma forse lo avrebbero fatto anche se avessimo avuto dei soldi» dice Aminah.

Finalmente le due ragazze vengono fatte salire a bordo di un pullman che va a istanbul.

Scese in città, sono affamate e prostrate. La capitale turca pullula di turisti, universi paralleli che non si intersecano mai, o quasi. A una fermata dell’autobus qualcuno si avvicina e dà loro qualche soldo per mangiare.

Yasmin e Aminah si sentono perdute. Sono lontane da casa, i trafficanti le hanno abbandonate in una città enorme e tentacolare senza dare loro direttive, senza un contatto sul territorio e con l’ostilità degli altri connazionali arrivati lì, a causa della propria omosessualità.

«Ci dicevano che dovevamo andarcene perché rovinavamo la reputazione delle donne pakistane con i nostri atteggiamenti, a volte ci minacciavano» ricorda Yasmin.

Qualche giorno più tardi le due conoscono un signore, anch’esso pakistano. Sembra gentile e propone loro un patto. Avrebbe pagato il viaggio fino in Grecia, se avessero accettato di passare la notte insieme.

«Abbiamo accettato. Siamo state in albergo, con lui».

Il giorno dopo l’uomo, rispettando la parola data, le accompagna al traghetto e paga il biglietto per raggiungere la Grecia, fino all’isola di Kos. Qui, vengono identificate, ricevono un permesso di soggiorno di un mese e vengono condotte ad un centro di accoglienza sulla terraferma.

Nel centro quasi tutti cercano subito un modo per andarsene. I più sono organizzati, hanno i loro contatti e chiamano per farsi spiegare come proseguire nel viaggio attraverso l’Europa.

Loro invece non hanno nessuno.

Nel 2015, che è l’anno in cui ha luogo la storia di Yasmin e Aminah, un flusso senza precedenti di migranti ha cercato di raggiungere i Paesi dell’Unione Europea attraverso la così detta rotta balcanica. I profughi, arrivati in Grecia, seguivano questo percorso per arrivare attraverso i territori della ex Jugoslavia, in Ungheria o in Croazia rientrando così nell’UE. Secondo Frontex quell’anno è stato registrato il passaggio di circa 764 mila migranti lungo questa rotta, con un incremento pari a 16 volte rispetto all’anno precedente. Da quel novembre, tuttavia, il passaggio attraverso le frontiere è diventato sempre più difficoltoso. A iniziare dalla Serbia e dalla Macedonia, che ha blindato i propri confini meridionali con la Grecia, altri paesi balcanici ed europei hanno chiuso le frontiere ai migranti. Queste misure, assieme agli accordi UE-Turchia hanno di fatto prosciugato la rotta balcanica occidentale. Al confine greco con la Macedonia, fino a quel momento luogo di passaggio, moltitudini di rifugiati si sono trovate bloccate in un campo transitorio costruito tra un ex mattatoio e i binari della ferrovia. Quel luogo, ogni giorno più sovraffollato, è diventato il famigerato campo profughi di Idomeni, in cui 15mila persone vivevano in tende di plastica, in condizioni igieniche e abitative disumane e che è stato sgomberato a maggio del 2016 tra la vergogna delle Istituzioni nazionali ed europee.

Un ragazzo si avvicina e chiede di poter utilizzare il loro telefono per chiamare il suo contatto. Glielo passano e dopo un po’, disperate, compongono l’ultimo numero rimasto in memoria.

«Abbiamo richiamato il numero che un ragazzo aveva composto dal nostro telefono per avvisare i parenti. Al signore che ha risposto abbiamo detto che non sapevamo che fare e lui ci ha aiutato, ci ha tenuto nella sua casa fino alla scadenza del permesso, poi ha contattato qualcuno e, dicendoci di fidarci, che saremo arrivate in Europa, ci ha messo su un treno».

Dopo il treno, un furgone con altre persone, fino a quando il guidatore fa scendere tutti in una zona isolata. I profughi non sanno più dove si trovano, non hanno riferimenti e il paesaggio attorno a loro è sempre più desolato e livido per l’inverno incipiente.

«Ci ha detto che dovevamo proseguire a piedi per sei ore, invece sono stati tre giorni. Fino a quando non avremmo raggiunto un bosco. Faceva freddissimo ma, a quel punto, non potevamo fare altro che proseguire.»

Di nuovo un tratto in auto fino alla prima città di cui viene detto loro il nome. Belgrado. Poi altre tappe, fino al confine ungherese, che superano attraverso un varco nel filo spinato, poi l’Austria e infine l’Italia, fino a Roma.

«Non voglio più tornare a casa, una volta che una ragazza esce di casa e fa come noi non può più tornare è una questione di onore. Se ci avessero fatto vivere liberamente non avremmo lasciato il Pakistan e non saremmo mai arrivate così lontano. Io nemmeno immaginavo che saremmo arrivate così lontano.»


Avete ascoltato la quarta storia di Prima di vedere il mare, un podcast che parla di persone e migrazioni. Con questo episodio si conclude il nostro viaggio vissuto attraverso gli occhi di Nyala, Yasser, Lisa, Lena, Yasmin e Aminah. Molte altre storie meriterebbero di essere raccontate, le storie nascoste dietro i volti che incontriamo ogni giorno nelle nostre città e che da oggi, anche senza conoscerle, sapremo essere lì. Prima di salutarvi vorrei ringraziare voi che avete ascoltato il podcast e voi che mi avete scritto pareri e consigli. Ogni messaggio è stato molto importante.

Il podcast resta disponibile su tutte le piattaforme più diffuse, inoltre potete continuare a seguire gli aggiornamenti e gli approfondimenti attraverso le pagine instagram e facebook del progetto. Di nuovo grazie e a presto.


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