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  • Writer's pictureAlessandro Rinaldi

episodio 1 - la sposa etiope


👇👇 Leggi la trascrizione dell'episodio👇👇


È l’anno 2000. La storia di Nyala ha inizio tra le strade polverose di terra rossa di Jimma, in Etiopia, quando, bambina e orfana dell’ennesima guerra tra il suo paese e l’Eritrea, viene accolta in città da una famiglia amica dei suoi genitori.

Stavolta la guerra era scoppiata per dispute territoriali irrisolte dopo la fine dell’altra guerra, quella trentennale, che aveva portato all’ indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. Jimma, invece, è legata al passato coloniale dell’Italia. Il 7 maggio del 1936, dopo che Badoglio era entrato ad Addis Abeba due giorni prima, affacciandosi dal balcone che dà su Piazza Venezia, Mussolini proclamò la nascita dell’Impero. Jimma divenne così la sede del governatorato della regione per la sua posizione baricentrica rispetto a quel territorio e due anni dopo aveva già 15000 abitanti di cui un terzo italiani. La città in cui vive Nyala è stata praticamente ricostruita in quel periodo sulle fondamenta di un antico villaggio.

I suoi nuovi genitori si chiamano Ali e Jamila, e in casa ci sono anche tre bambini suoi coetanei. Anche se i tre vanno a scuola a Nyala non è concesso.

«Quando tornavano a casa e andavano a giocare, io prendevo i loro quaderni e sfogliavo le pagine. Non capivo quei simboli ma volevo imparare anche io a leggere e a scrivere».

Si sente esclusa e prova a chiedere se può andare a scuola, ma le rispondono che il suo compito, là dentro, è quello di fare i lavori di casa per sdebitarsi della loro generosità. Nyala non si arrende e continua a manifestare il proprio desiderio fino a quando la coppia, ormai stufa, comincia a punire la sua insistenza con le botte. Allora Nyala terrorizzata lavora, mangia quel poco che le danno e sta zitta.

Passano alcuni anni e, quando ne compie quindici, Ali e Jamila le presentano Yonas.

Fino ad allora non aveva mai saputo con precisione la sua età ma non è così strano. Secondo un report del 2013 dell’Unicef, soltanto il 7% dei bambini etiopi vengono registrati all’anagrafe alla nascita, ma il trend è estendibile a tanti altri paesi africani. Sono soprattutto le famiglie che vivono nelle aree rurali o remote del paese e il cui tasso di scolarizzazione è molto basso ad incontrare i maggiori ostacoli all’accesso ad un sistema di registrazione delle nascite.

Yonas è un uomo di circa 50 o 55 anni e lei non ne vuole sapere di sposarlo. Protesta e protesta ancora, pur sapendo che quella disobbedienza le sarebbe costata cara.

«Credi che potrai rimanere qui con noi a mangiare a nostre spese per sempre?» le gridano.

«Li ho supplicati per giorni di ripensarci, gli ho detto che non avrei più chiesto di andare a scuola, ma non volevo che mi cedessero a quell’uomo, io non volevo sposarmi, tanto meno con lui. Loro si sono arrabbiati e un giorno mi hanno picchiata e hanno preso un ferro arroventato con il quale mi hanno bruciato sui piedi e sulla pancia, così mi sarei ricordata qual è il mio posto dicevano».

Alla fine Nyala si sposa, non avrebbe potuto fare altro, e dalla prima notte di nozze scopre quanto sia violento e pericoloso suo marito. La picchia ogni volta che gli va e dorme con un grosso coltello sotto il cuscino con cui la minaccia se non vuole fare tutto quello che le dice. Vive un inferno lungo nove mesi, fatto di abusi fisici e psicologici.

«Uno di questi giorni ti ammazzerò e nessuno verrà a cercarti perché sei sola al mondo e io la farò franca» le dice. Una volta è così disperata che approfittando dell’assenza dell’uomo esce e raggiunge l’abitazione di Ali e Jamila. Forse, se avesse raccontato quello che stava succedendo, loro ci avrebbero ripensato.

«Riprendetemi per favore, Yonas è violento e finisce che mi ammazza, se mi riprendete lavorerò il doppio e non protesterò mai per niente» dice.

Invece i due la chiudono dentro e vanno a chiamare il marito che viene a riprenderla e che, una volta tornati a casa, la picchia più forte del solito. Lui non sa fare altro, la insulta, la minaccia e la picchia.

Poi una mattina dopo l’ennesima notte di violenze, Nyala decide che nove mesi così sono stati sufficienti e si rende conto che ogni giorno in più trascorso con lui avrebbe potuto essere l’ultimo della sua vita. Così esce di casa e quasi senza portarsi dietro niente, tranne un po’ di soldi, si incammina lungo la strada senza avere una vera meta, senza realmente pensare a cosa avrebbe fatto, voleva solo allontanarsi da quell’uomo.

Piange e cammina fino a quando un furgone blu, uno dei tanti taxi collettivi di Jimma, si ferma e l’autista le chiede se vuole un passaggio. Lei lo vuole, ma non sa dove andare, così lui la fa salire sul mezzo già pieno di gente e la porta in una zona lontana della città dove scendevano anche gli altri passeggeri.

Prima di ripartire l’autista le chiede ancora se avesse bisogno di aiuto e le ripete che deve assolutamente trovare un posto dove andare, non può certo restare lì per strada. Così lei gli dice di volere andare in Sudan perché è l’unico nome di posto lontano che conosce.

L’uomo le dice che ha un amico autista che fa la spola tra i due paesi e che avrebbe potuto chiamarlo per farla passare a prendere. Lei acconsente. Doveva andare ovunque Yonas non avrebbe potuto trovarla.


Il viaggio è scomodo ma costa poco e qualche giorno più tardi lei scende a Khartoum. La città è grande e molto diversa da Jimma, ma dopo pochissimi giorni riesce a farsi assumere come addetta alle pulizie di un palazzo e per un certo periodo la sua nuova vita procede frugale ma serena. È una sensazione che non aveva mai provato nella sua vita, quella di essere libera.

Passano quasi dieci anni e un giorno al lavoro conosce un ragazzo sudanese, Ahmed, che è appena stato assunto come portiere nel suo stesso palazzo. È gentile e la saluta ogni mattina e ogni sera. Dopo un po’ i due si innamorano e alla fine decidono di sposarsi.

«Non gli ho mai detto del mio precedente matrimonio, se l’avessi fatto sono sicura che lui non mi avrebbe più voluta»

I primi tempi sono felici, Ahmed non è violento e non assomiglia per nulla a Yonas. Tuttavia i due non riescono ad avere figli e dopo circa due anni di tentativi cominciano i litigi. Ahmed inizia a incolpare Nyala. Il problema deve essere per forza della donna, lui non si mette mai in discussione. Lei vuole andare da un dottore e fare dei controlli ma non hanno soldi a sufficienza per una visita specialistica. Mentre la vita coniugale va a rotoli, improvvisamente il collo di Nyala inizia a gonfiarsi e a farle molto male al punto da essere costretta a lasciare il lavoro. Il gonfiore al collo cresce a dismisura (Nyala è arrivata in Italia con un grosso gozzo tiroideo per il quale è stata fortunatamente operata).

«Quando camminavo per strada anche se mi stringevo bene nel velo la gente mi guardava come si guarda un mostro, così ho iniziato a uscire il meno possibile».

Quando la malattia si manifesta il marito sparisce, una mattina esce per andare al lavoro senza più tornare. Al palazzo le dicono che si è licenziato. I risparmi che Nyala ha messo da parte cominciano a diminuire, ha sempre meno soldi per mangiare ed è solo grazie all’aiuto di alcuni vicini di casa, con i quali negli anni ha stretto amicizia che riesce a sopravvivere. Ahmed si è portato via quasi tutti i soldi e anche i documenti di Nyala, tra cui il certificato di matrimonio, così a lei non resta che ricorrere alla medicina tradizionale, non tanto perché pensa che sia efficace ma perché non ha altra scelta.

«Ogni sera mi facevo degli impacchi con il limone e delle spezie che mi preparava la mia vicina di casa, mi sembrava di stare meglio ma poi le cose sono peggiorate. Ho cominciato a vedere annebbiato e spesso mi girava la testa»

Allora Nyala pensa di rientrare in Etiopia, sebbene non abbia più nessuno di cui possa fidarsi e tema il rancore omicida del primo marito. Ma è la sua terra. Pensa che, ad ogni modo, le manchi ormai poco da vivere e vorrebbe tornare. Nel frattempo però, erano ricominciate le persecuzioni contro gli Oromo, la sua etnia.

«Quando guardavo la televisione sentivo le notizie che dicevano che il governo stava uccidendo molte persone e che molte altre erano finite in carcere e erano state torturate»

Lei non capisce bene quali siano le cause che hanno scatenato tutto ciò ma le è chiaro che non sarebbe riuscita a tornare.

Gli Oromo rappresentano la maggioranza nel paese, sono il 34% della popolazione, ma da sempre sono una delle etnie maggiormente perseguitate in Etiopia. In quei giorni protestavano contro i piani del proprio governo di espropriare parte delle loro terre per espandere il confine amministrativo della capitale. La repressione del governo fu indiscriminata e durissima e portò a centinaia di incarcerazioni e uccisioni e non soltanto tra i contestatori ma tra l’intera etnia. Secondo human rights watch durante le proteste furono uccise oltre 500 persone, ma stabilire i numeri reali di quei lunghi mesi di oppressioni risulta molto difficile.

Alle olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016, più o meno negli stessi giorni in cui Nyala arrivò in Italia, il maratoneta etiope Feyisa Lilesa fece il gesto dei polsi ammanettati tagliando il traguardo al secondo posto, proprio in segno di dissenso contro le persecuzioni che il governo stava mettendo in atto contro gli Oromo, la sua etnia. Cercate il filmato su youtube.

Nyala capisce che se non può tornare indietro e non può restare a Khartoum, deve rimettersi in viaggio. Ha sentito dire che in Europa l’avrebbero potuta curare ma che prima doveva andare in Libia, perché è da lì che si parte.

Così dopo dodici anni trascorsi in Sudan, sale nel rimorchio coperto di un camion già stracolmo di persone e una sera comincia la nuova tappa del suo viaggio.

«C’era così tanta gente stipata lì dentro che quasi non c’era posto per sedersi, stavamo tutti appiccicati e dopo alcune ore anche respirare non era più facile, si boccheggiava, io stavo male ma vedevo anche gli altri soffrire».

Il viaggio dura molti giorni, anche se in quelle condizioni, sempre al buio sotto il telone del rimorchio, il tempo comincia a perdere significato.

Durante il tragitto il camion si ferma pochissime volte e ogni volta solo per pochi minuti. Percorre a grande velocità i territori che attraversano. Quando i due autisti li fanno scendere in una radura desertica è di nuovo sera. Gli dicono che sono arrivati in Libia e che qualcuno li sarebbe venuti a prendere. Salgono di nuovo a bordo del mezzo e spariscono all’orizzonte.

Qualche ora più tardi nuvole di polvere preannunciano l’arrivo di alcuni pick-up. Sono dei miliziani che con fare rude accusano il gruppo di essere clandestino e arrestano tutti. In carcere, dopo pochi giorni, questi uomini chiedono ai prigionieri soldi per pagare la loro scarcerazione.

«Dicevano che chi pagava sarebbe stato liberato e portato alle barche che partivano per l’Italia»

Nyala non ha più nulla e così loro la picchiano e la lasciano a terra. Successivamente gli uomini tornano e le chiedono se avesse dei parenti in grado di pagare per la sua liberazione, ma lei non ha davvero nessuno e viene picchiata di nuovo.

Qualcuno dei suoi compagni di cella ogni tanto viene portato via, non sa per dove. Lei patisce la fame e la sete, fa fatica a respirare e a camminare per la malattia e le botte che le danno. Un giorno vengono delle persone e portano via delle ragazze e degli uomini. I miliziani provano a vendere anche lei ma il suo aspetto la rende invendibile e la protegge da abusi sessuali risparmiandole una fine molto comune alle donne tenute prigioniere in Libia. Ne parleremo in un prossimo episodio.

«Quegli uomini ogni tanto tornavano e mi picchiavano, mi gridavano che non servivo a niente perché ero mostruosa e che nessuno mi avrebbe comprata e che mi avrebbero sicuramente ammazzata. Però un giorno mi hanno presa e messa su un camion e infine mi hanno gettata sul ciglio di una strada, non so perché»

Con fatica Nyala punta le mani sull’asfalto rovente e si rialza. Raggiunge un gruppo di profughi in attesa di essere imbarcato dai trafficanti, sebbene lei non sapesse esattamente per dove. Qui la storia si fa più confusa, le continue sofferenze fisiche e psicologiche la prostrano, tuttavia lei resta ostinatamente aggrappata alla vita.

Si rifugia tra loro senza sapere cosa fare per uscire dalla situazione in cui è precipitata e senza più nemmeno la forza per farlo. Quella notte, o forse qualche notte dopo, vengono degli uomini e svegliano tutti improvvisamente, a spintoni, li caricano su un furgone e li trasportano sulla costa, dove vengono messi a bordo di un barcone malandato che li avrebbe portati in Italia.

Accade tutto di fretta. Nella frenesia degli ordini dei trafficanti di esseri umani, senza sapere bene cosa stesse accadendo, Nyala, stipata tra decine di altri uomini, donne e qualche bambino ascolta per la prima volta in vita sua, nel buio pesto, il rumore del mare.


Avete ascoltato la prima storia di Prima di vedere il mare, un podcast che parla di persone e migrazioni. Il prossimo episodio uscirà tra due settimane, a presto!


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